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Psicologa Roma

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L'AGGRESSIVITÀ

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DEFINIZIONE

Per aggressività si intende la capacità di infliggere danno o dolore mediante comportamenti verbali o non verbali. Il termine aggressività può assumere molteplici significati, in base al contesto in cui esso viene utilizzato.
Gli psicologi definiscono generalmente l’aggressività come “quella serie di comportamenti volti ad arrecare un danno, fisico o psicologico, ad altri individui, indipendentemente dal raggiungimento o meno dell’obiettivo”. Tale definizione pone l’accento su due aspetti importanti: l’intenzionalità di arrecare un danno ad altri e l’aspettativa che tale atto provochi delle conseguenze in chi lo subisce. In particolare, l’aggressività viene descritta mediante la contrapposizione al concetto di violenza. Quando si parla di aggressività, si tende a porre maggiormente l’accento sulla componente istintuale, dovuta alla percezione di un rischio o alla difesa di oggetti, persone o situazioni. Con il termine violenza, invece, si fa riferimento ad atteggiamenti antisociali, intenzionali, organizzati e finalizzati al raggiungimento di uno scopo preciso. E’ opportuno intendere l’aggressività come una caratteristica che varia fortemente da un soggetto all’altro e che risente di fattori sia genetici, che educativi che ambientali. Questa tendenza è più spiccata nei maschi che nelle femmine. In tutte le specie di mammiferi i maschi più aggressivi sono anche quelli che hanno più rapporti sessuali, e il legame fra essere aggressivi e sessualità è confermato dal fatto che dei due principali mediatori chimici, i quali attivano e modulano nel nostro cervello i comportamenti aggressivi, uno è l’ormone maschile, o testosterone (mentre l’altro è la serotonina).
Sono stati, però, gli autori della corrente etologica, ed in particolare Konrad Lorenz, ad aver ricondotto l’aggressività all’ambito della sopravvivenza. Secondo tali autori, i comportamenti aggressivi sono innescati da stimoli ambientali o sociali particolari e si rifanno a comportamenti territoriali di avvicinamento ed esplorazione. Dunque, secondo tale concezione, l’aggressività implicherebbe solo l’ingresso nello spazio territoriale altrui e può essere intesa come una pulsione innata in grado di esprimere funzioni necessarie alla sopravvivenza. La differenza tra le due definizioni – quella generale e quella proposta dagli etologi – sta nel fatto che la prima definizione esclude qualsiasi azione che può arrecare dolore o sofferenza in maniera non intenzionale, mentre la definizione offerta da Lorenz considera l’aggressività come una qualità innata dovuta allo spirito di sopravvivenza e alla necessità di conquistare o difendere un particolare spazio territoriale.
L'AGGRESSIVITÁ SECONDO FREUD
Freud, padre della psicoanalisi, afferma che l’aggressività umana è inevitabile e frutto della tensione fra due pulsioni primarie, quello di autoconservazione (Eros) e quello di autodistruzione (Thanatos)” [Palmonari et al. 2002]. Quindi per Freud l’aggressività si rifà inizialmente a cariche istintuali per poi diventare espressione di un istinto di morte (thanatos), che si contrappone ad un istinto di vita (eros).

Frustrazioni e Ingiustizie …

Le cause della Rabbia

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Psicologa, psicoterapeuta, sessuologa a Roma

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    PERCHE' I BAMBINI SI ARRABBIANO?
    Un comportamento aggressivo può avere molte funzioni e spesso il bambino attraverso la rabbia comunica qualcosa agli adulti che non saprebbe esprimere a parole. Il lattante piange quando i suoi bisogni primari non sono soddisfatti (fame, sonno, coccole, ecc.) e questo comportamento è aggressivo e utile: richiama a sé le attenzioni dell’adulto che accudisce. In questo caso rispondere al bisogno consolida la fiducia e l’autostima del piccolo. Non rispondere per paura di viziarlo, significherebbe creare gavi deficit che si mostreranno in futuro.
    COSA ACCADE POI QUANDO IL BAMBINO CRESCE?
    Il processo di crescita comporta sempre una dose di frustrazione, proprio perché siamo tutti inseriti nella realtà. Il bimbo si confronta con tante situazioni frustranti ed è bene che i genitori siano in grado di “reggere” la sua frustrazione e fare una mediazione tra “dargliela vinta” (a limite “viziarlo e iper proteggerlo” ) oppure “usare il pungo di ferro” (frustrarlo oltre il necessario privandolo di affetto e contatto). La virtù è nel mezzo di questi due estremi. Il genitore deve capire l’età e la fase di sviluppo che il figlio attraversa e comportarsi con lui di conseguenza: non si può pretendere da un bambino di 2 anni la stessa capacità di gestione delle emozioni che chiediamo ad un ragazzo di 12. Ecco perché lo psicologo Bowlby parla della madre come una “base sicura” e dice che dovrebbe essere “sufficientemente buona”. Occorre sottolineare che non basta “sfogare la rabbia”, ma comprendere le radici della propria frustrazione e cercare modalità idonee di espressione. Lo sport in questo caso può essere molto utile, perché combina in sé gli elementi del movimento, del gruppo, della ritualizzazione e delle regole.

    COSA CI STA COMUNICANDO IL BAMBINO?

    Questa è una domanda molto utile in caso di comportamenti esageratamente aggressivi. Anzichè entrare nel braccio di ferro con il figlio, l’educatore può chiedersi il motivo di questo comportamento, imparando a sospendere l’azione e riflettere col bambino su cosa sta succedendo. In ciò è utilissimo che il genitore faccia il “rispecchiamento”, rimandando al bambino il fatto che comprende le sue emozioni, le riconosce e le rispetta (ad es. “vedo che sei molto arrabbiato in questo momento…”). Riconoscere le emozioni dà al bambino la possibilità di capire se stesso, instaurare un dialogo con l’educatore e canalizzare la rabbia in senso positivo. Dovremmo fare contatto con le nostre emozioni e chiederci sempre come educatori: “la sua rabbia per me cosa significa? Cosa mi suscita? Cosa sento quando lui si arrabbia?”

    PSICOTERAPIA

    QUANDO LA RABBIA E’ PATOLOGICA? La presenza eccessiva di manifestazioni di rabbia, irritabilità ed aggressività possono accompagnare un disagio psicologico (per patologie come ansia, depressione e/o disturbi di personalità) oppure un disturbo dell’apprendimento. Il comportamento aggressivo eterodiretto è molto frequente anche negli individui adulti: affetti generalmente da disturbi d’ansia, insonnia, disturbi dell’umore, disturbi di personalità, disabilità intellettiva. In tutte le situazioni in cui si presenta dis-ancorata dal contesto (non c’è un vero motivo nel presente), in cui si presenta in maniera esagerata, distruttiva e reiterata nel tempo. La rabbia è patologica anche quando il bambino è troppo “buono” e remissivo, accetta passivamente tutto e non è in grado di protestare e far valere le proprie ragioni (candidato ideale per disturbi psicosomatici). In questi casi occorre non nascondersi dietro il dito ma farsi aiutare dallo psicologo, il professionista delle relazioni umane. I due interventi più diffusi nella pratica clinica per la gestione della rabbia nei bambini sono la formazione dei genitori e la psicoterapia cognitivo-comportamentale. Il primo metodo è finalizzato a migliorare i modelli di interazione familiare che generano un comportamento aggressivo nei soggetti più piccoli. La terapia cognitivo-comportamentale ha, invece, come obiettivi il deficit nella regolazione delle emozioni e la difficoltà nella risoluzione dei problemi che sono spesso associati a comportamenti aggressivi in bambini, adolescenti ed adulti. Entrambe le forme di trattamento hanno ricevuto un ampio sostegno da parte degli studi clinici.

    TECNICHE

    I metodi maggiormente utilizzati sembrano essere interventi basati sul rilassamento, sulla terapia cognitivo-comportamentale e sull’apprendimento di abilità comportamentali. Il paziente può essere istruito all’utilizzo di tecniche di rilassamento muscolare che gli consentiranno di alleggerire la tensione corporea. Attraverso una ristrutturazione cognitiva si può aiutare la persona a percepire in modo più realistico ed accurato le situazioni, in modo che non vengano esagerati e distorti gli eventi, in maniera negativa. Sul versante comportamentale, possono essere insegnate nuove tipologie di risposta, attraverso diversi tipi di esposizione alle situazioni che suscitano rabbia, per dar modo al soggetto di apprendere la gestione delle sue emozioni. Anche gli interventi sul perdono, che mirano a ridurre il desiderio di vendetta e i pensieri di condanna verso gli altri sembrano necessari ed efficaci per incrementare il successo della terapia. Infine, sembra utile anche il lavoro di tipo sistemico, che coinvolge familiari o amici o qualsiasi altra persona possa essere ritenuta un valido supporto sociale e risorsa per il soggetto. L’ostacolo più grande in questi casi, sta nella predisposizione e motivazione del paziente al cambiamento. Le persone in questi casi arrivano in terapia più per avere consigli su come cambiare il comportamento dei trasgressori, o per sfogarsi di essere il bersaglio di ingiusti trattamenti. Vogliono che il terapeuta li aiuti a capire come cambiare i loro amici, colleghi, partner o superiori, piuttosto che modificare il proprio atteggiamento. Dal momento che spesso le persone rifiutano l’obiettivo terapeutico di eliminazione della rabbia, ma restano piuttosto concentrati sul desiderio di vendetta, insegnare ai pazienti la distinzione tra rabbia adattiva e distruttiva, e creare la consapevolezza degli elevati costi che può comportare la rivalsa, può essere un primo passo utile per favorire il cambiamento.
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